22 novembre 2008

Arrestati, torturati, uccisi

Cari lettori,
più di 600 autori in tutto il mondo vengono torturati o sono in carcere. "Writers in prison" (scrittori in prigione) è una commissione instaurata nel 1960 dall'associazione International PEN. Questa commissione è composta da un gruppo di esperti che monitorano i migliaia di casi di attacchi contro autori, giornalisti, editori, poeti ed altri scrittori in tutto il mondo. La rivista tedesca "Die Zeit" (Il tempo) ha pubblicato un'intervista a Katja Behrens, rappresentante in Germania della commissione "Writers in prison". Sentiamo cosa dice:

DIE ZEIT: Signora Behrens, lei rappresenta la Writers in Prison qui in Germania. Da anni lei lavora per aiutare scrittori perseguitati o in prigione. Può darci qualche cifra a riguardo?

KB: Le cifre variano. Nella prima metà di quest'anno sono stati 658. Alcuni di loro sono stati uccisi.

DIE ZEIT: In quali paesi si riscontrano più casi?

KB: In Cina molti sono messi in prigione. Anche in Turchia, Cuba e Birmania.

DIE ZEIT: Per quali ragioni?

KB: Bisogna innanzitutto fare una distinzione fra la ragione dichiarata dal governo e quella reale. Ad esempio in Cina, quando arrestano uno scrittore, dicono di averlo fatto per la sicurezza nazionale. Spesso la persona in questione ha solamente scritto un testo sulla storia del Tibet.

DIE ZEIT: Ed in Turchia?

KB: La ragione principale è la violazione dell'articolo 301, "offesa contro lo stato". Il più delle volte si tratta di uno scritto sul genocidio degli Armeni.

DIE ZEIT: Cosa possono fare gli scrittori in questione?

KB: Niente! Sono in prigione, vengono torturati, a volte sono molto malati e vengono lasciati morire. In Cina molti sono nei cosiddetti "campi di rieducazione". Spesso non ci si rende conto che questa è una dittatura. Le celle non sono così comode come qua. In paesi dove le persone vengono condannate per aver scritto qualcosa di scomodo, non usano i guanti di velluto.

DIE ZEIT: Cosa può fare la vostra organizzazione?

KB: Abbiamo 50 centri in tutto il mondo. La sede è a Londra ed è lì che convergono tutte le informazioni su scrittori perseguitati. Una possibilità che noi abbiamo è quella di informare l'opinione pubblica. Quando in 50 paesi diversi vengono pubblicate informazioni sulla persecuzione di un certo scrittore, al governo dello stato interessato ciò non piace.

DIE ZEIT: Quindi, cosa succede?

KB: Il governo cerca di contrastare questa attenzione negativa, ad esempio, con un alleviamento della pena. A volte, smettono di torturarli. Oppure viene fatta girare la voce, come nel caso del cinese Shi Tao, che l'autore in questione è libero e non è più scrittore da tempo. Queste voci non confermate arrivano poi anche qui in Germania.

DIE ZEIT: Siete riusciti ad avere qualche successo?

KB: Lo scrittore tibetano Dolma Kyab è in un campo di rieducazione. Rendendo pubblico il caso, abbiamo almeno fatto in modo che non debba più svolgere lavoro fisico. Tuttavia, non l'hanno rilasciato.

DIE ZEIT: Cos'altro potete fare?

KB: Per noi è anche importante aiutare economicamente le famiglie degli scrittori perseguitati. As esempio, a Cuba alcune di queste famiglie sono molto povere. Anche in Turchia ciò è molto importante.

DIE ZEIT: So che coinvolgete gli studenti nel vostro lavoro.

KB: Si, ho informato gli studenti dell'università di Gießen sulla persecuzione di scrittori. All'inizio, erano studenti di anglistica e germanistica. Se riusciamo a coinvolgere le università, l'attenzione pubblica verso i detenuti si allarga ancora di più. A Gießen, gli studenti hanno reagito subito, appendendo manifesti, distribuendo volantini, producendone anche dei propri e contattando anche altre università. Questa risonanza ci fa essere ottimisti.

DIE ZEIT: Quest'anno la fiera del libro di Francoforte ha ospitato la Turchia, prossimo anno sarà la volta della Cina. Perché si è discusso così poco di questo argomento alla fiera?

KB: Semplicemente perché il problema non viene percepito. Nell'ambiente letterario tedesco se ne parla molto raramente. Peccato. La mia opinione è la seguente: chi vuole leggere deve anche pensare a coloro che non possono scrivere.

DIE ZEIT: Quindi queste fiere pubbliche hanno una certa responsabilità?

KB: Penso di si. Per questo motivo sarà molto importante informare prossimo anno la gente sulla situazione attuale in Cina. Certamente non bisogna anche dimenticare che in una fiera sono in gioco degli interessi economici. Quindi, se si vuol fare in modo che l'argomento venga affrontato alla fiera del libro, difficilmente si può contare sui dirigenti della fiera, magari sui lettori o forse su quelle librerie o anche singole case editrici che sono disposte a mettere da parte i loro interessi economici e a richiamare l'attenzione del pubblico sulla condizione degli scrittori in Cina.


Tratto da:
Verhaftet, gefoltert, ermordet, di David Hugendick
su
Zeit Online, 14 Novembre 2008

20 novembre 2008

Troppi stranieri nel frutteto

Cari lettori,
vi riporto un'intervista a Sandro Odak, membro del "Fronte delle Mele Tedesche" (FDÄ). Il nome deriva dal nome del segretario del partito di estrema destra dell'NPD (Partito Nazionaldemocratico Tedesco), Holger Apfel. Infatti, Apfel in tedesco vuol dire "mela". In questa intervista, Christina Warta, giornalista per il Süddeutsche Zeitung, chiede a Sandro Odak di descrivere la loro attività.

CW: Cos'è e cosa vuole l'FDÄ?

SO: L'FDÄ è una organizzazione di satira che copia e mette in ridicolo l'atteggiamento, la retorica e i personaggi di vecchi e neo-nazisti, in modo da mostrare quanto balorda sia spesso in effetti l'estrema destra. Da un lato, vogliamo portare un po' di divertimento nelle manifestazioni. Dall'altro, cerchiamo di produrre un po' di shock, e finora ci siamo quasi sempre riusciti.

CW: Com'è nata l'associazione?

SO: Il gruppo è stato fondato da Alf Thum. Questo artista voleva avviare nel 2004 un'azione contro i nuovi deputati del partito dell'NPD nel parlamento regionale. L'azione voleva andare oltre le solite grida "fuori i nazisti!". Oggi l'FDÄ ha rappresentanze in quasi tutto il territorio tedesco. Accogliamo membri da ogni ideologia politica. Unica eccezione è l'estrema destra, ma anche alcuni di loro nei casi più rari vogliono far parte del nostro gruppo.

CW: Le vostre manifestazioni sono di stampo teatrale. Vi esercitate spesso?

SO: (ride)Sarebbe bello. Al di fuori delle manifestazioni e necessari preparativi, ci incontriamo raramente. I testi li scriviamo noi, il tutto è ispirato al linguaggio usato nell'ambiente nazista o nel Terzo Reich, espresso in forma umoristica.

CW: Ad esempio, quando dite di auspicare un "non sovraffollamento di stranieri nell'assortimento di frutta tedesca" e definite l'FDÄ "l'unica vera forza nazionale in Germania". Non temete di poter ricevere un applauso dalla gente sbagliata?

SO: Ciò non dovrebbe succedere oggigiorno. Il fronte delle mele è anche abbastanza conosciuto come uno dei gruppi di destra più idioti. Dopo la distribuzione dei volantini e dopo la nostra manifestazione, il nostro messaggio dovrebbe essere chiaro per tutti. Nel caso qualcuno non abbia ancora capito, spieghiamo noi volentieri dopo la manifestazione di che cosa si tratta.

CW: Perché mettete in ridicolo i neo-nazisti? È una situazione molto difficile..

SO: Crediamo che si possa benissimo prendere in giro i neo-nazisti. Tuttavia, è sempre difficile non diventare irriverenti. Per noi la cosa più importante è quella di evitare la derisione.

CW:come reagisce l'estrema destra alle vostre manifestazioni? Siete stati mai minacciati o attaccati?

SO: Ci si scontra inevitabilmente su Internet. Ci hanno dato a capire che in un certo qual modo apprezzano la nostra non-violenza e allo stesso tempo ci hanno fatto sapere che sanno dove lavoriamo o dove abitiamo. Personalmente, non la considero una minaccia diretta, ma prima o poi si va a pensare se effettivamente qualcuno ci aspetta fuori dalla porta. Ad ogni modo, non ci nasconderemo, in fin dei conti sarebbe come far loro un favore.

Tratto da:
Überfremdung im Obstgarten, di Christina Warta
su
Süddeutsche Zeitung, 17 Novembre 2008

16 novembre 2008

Sulla scuola italiana

Cari lettori,
ecco un articolo molto interessante sulla situazione della scuola italiana. L'autore è Giovanni Reale, scrittore e filosofo, autore della nota collana di manuali di storia della filosofia per i licei. In questo articolo, egli parla della situazione odierna della scuola italiana, mettendo in risalto gli aspetti positivi e negativi, analizzando cause e conseguenze e accennando possibili rimedi.

Parlare della cultura oggi in Italia non è facile, in quanto si riscontrano vertici sia in positivo, sia in negativo che non è facile considerare nei loro nessi e nei loro reciproci influssi.
In primo luogo, si parla molto male della scuola soprattutto secondaria (ma in parte anche di quella primaria), e le ragioni che vengono addotte sono in genere ben fondate. Però si dimentica un particolare: i licei classici e scientifici, quando sono tenuti da insegnanti che svolgono il loro compito in modo adeguato, sono ancora modelli esemplari. Gli studenti dei licei italiani, per esempio, risultano essere nettamente superiori agli studenti di tutti gli altri Paesi in filosofia. Hans-Georg Gadamer (uno dei più grandi filosofi del secolo XX) diceva che gli studenti italiani che lo ascoltavano intendevano il suo pensiero assai meglio di quelli tedeschi. Ricordo che, invitato a un convegno tenutosi anni fa a Bonn, illustrai il modo in cui si insegna filosofia nei licei italiani e un professore mi fece la seguente obiezione: certo, in filosofia nelle scuole medie superiori siete all’avanguardia, ma le riforme sono state fatte da Benedetto Croce e da Giovanni Gentile in modo mirabile. Ma come si possono trovare ministri come questi? Anche nelle pubblicazioni di testi filosofici siamo all’avanguardia. E i quotidiani - malgrado la riduzione sempre crescente delle pagine culturali - promuovono collane di opere di notevole portata.
Se però si passa agli elementi negativi della scuola, ben si può dire che mala tempora currunt. Molti giovani non sanno più correttamente scrivere e leggono pochissimo. Mostrano di non essere stati abituati alla fatica e all’impegno che implica lo studio. Mostrano di non aver imparato dalla scuola un metodo coerente e consistente. E le colpe di molti editori che abbassano la qualità per poter vendere più libri è ben nota. Senza parlare dell’assurdità di portare libri scientifici a costi insopportabili, come fanno certi editori tedeschi: alcuni volumi costano addirittura alcune centinaia di euro, e sono quindi acquistati solo da certe biblioteche.
Le ragioni di vari malanni sia della scuola, sia dell’editoria hanno però ragioni storiche ben precise. I vari strumenti multimediali hanno creato straordinari mezzi di comunicazione impensabili anche dalla più ricca e potente fantasia degli uomini del passato. Ma sono privi di contenuti o hanno contenuti estranei alla vera cultura. I giovani, fatalmente, usano molto spesso tali invenzioni come strumenti di gioco e non di apprendimento.
È in atto una vera e propria rivoluzione culturale in cui è in gioco la civiltà della scrittura e tutto ciò che è a essa connesso. I nuovi mezzi di comunicazione, per la loro natura e per la loro portata modificano i rapporti di chi li usa sia con le cose, sia con gli altri, con le conseguenze che ciò comporta. Instaurare un rapporto costruttivo e positivo fra la cultura della scrittura e la nascente civiltà dei mezzi di comunicazione multimediale non è facile. Ma è un errore gravissimo quello che alcuni stanno commettendo di pensare che la soluzione consiste nell’eliminare la cultura della scrittura e tutto ciò che essa implica.
Alcuni psicologi e pedagogisti sembrerebbero non aver compreso proprio questo, ossia che tali strumenti, se si prescinde dai contenuti provocano danni irreparabili. Nel sentire certe proposte fatte da questi uomini mi vengono alla mente due aforismi di Nicolás Gómez Dávila: «Lo psicologo abita i sobborghi dell’anima, come il sociologo la periferia della società» e «La smania pedagogica è stata il consigliere delle peggiori sciocchezze della storia e dei suoi più orrendi crimini». Aforismi che, se spogliati dell’eccesso dello stile icastico portato agli estremi, contengono molto di vero.
Alcuni sostengono che le riforme delle scuole devono fondarsi soprattutto su questi due punti. 1) Insegnare a fondo la lingua inglese come strumento di comunicazione con gli uomini di tutto il mondo. E insegnare questa lingua non solo con gli strumenti tradizionali, ma anche con l’introduzione dell’obbligo dell’insegnamento di alcune materie (soprattutto scientifiche) non in italiano, ma in quella lingua. E su questo punto io sarei d’accordo (in giusta misura, naturalmente, senza cadere in eccessi). 2) Preparare i giovani in modo il più possibile accurato all’uso di tutti gli strumenti di comunicazione multimediale, tenendo costantemente in conto di tutte le innovazioni che via via vengono presentate. E anche su questo sarei d’accordo.
Ma manca un adeguato fondamento. La lingua inglese e la tecnologia multimediale sono solo strumenti. La scuola non si può limitare a insegnare l’uso di strumenti. Occorrono i contenuti, ossia i valori, senza i quali quegli strumenti rischierebbero di funzionare a vuoto. L’obiezione che mi è stata fatta da alcuni è questa: non è compito della scuola comunicare valori, che sono opinabili e controvertibili. E questo altro non è se non puro nichilismo.
Ciò di cui io ritengo che i giovani di oggi abbiano bisogno è soprattutto il ricupero di certi valori che li aiutino a scoprire il significato delle cose e della vita, che solo la cultura della scrittura può comunicare. Alcuni psicoterapeuti hanno giustamente rilevato che il dramma dei giovani di oggi deriva soprattutto da due fatti mai verificatisi nel modo in cui oggi si verificano: molti trovano il caos in casa (separazioni e divorzi) e tutti il caos fuori casa (caduta di ogni fede nel Progresso e nel positivo che promette il futuro). Da questi mali non curano certo gli strumenti multimediali e tutto ciò che è a essi connesso.
Se poi parliamo dell’Università, più che mai dobbiamo dire che mala tempora currunt. L’introduzione della laurea breve ha semplicemente trasformato l’Università in un liceo. La semplificazione dei curricula è veramente al limite dell’assurdo. Per un corso semestrale non si possono imporre allo studente più di 250 pagine, per un corso annuale più di 500, e così di seguito. I malanni connessi con i concorsi sono a tutti ben noti.
Massimo Cacciari, nell’intervista pubblicata su questo quotidiano pochi giorni fa indicava l’eliminazione del valore legale del titolo di studi come efficace terapia di vari mali. Io sono dello stesso parere. I benefici che ne deriverebbero sono enormi. Da un lato, implicherebbe l’effettiva efficienza dell’Università basata sul prodotto che si mostra in grado di fornire. Dall’altro, aiuterebbe i giovani a non confondere ciò che veramente sanno con ciò che attesta un pezzo di carta.
Per quanto riguarda gli insegnanti delle scuole secondarie, la terapia che sarebbe veramente curativa di molti malanni potrebbe essere la seguente. In primo luogo lo stipendio dovrebbe essere per lo meno raddoppiato (con lo stipendio di un insegnante, oggi a Milano non si vive). Ma anche la qualità andrebbe molto migliorata. Severi esami e controlli incrociati. Farei come mi si dice che viene fatto in qualche Paese: se entro cinque anni uno dimostra di non essere capace di svolgere il compito che gli compete, viene invitato a cambiare mestiere. Bisogna anche che il pubblico cambi la valutazione della professione dell’insegnante e ne comprenda l’importanza assai notevole. Platone considerava i suoi scritti (che sono capolavori in senso assoluto) dei sublimi giochi, rispetto alla serietà con cui aveva svolto il suo mestiere di insegnante nell’Accademia. I suoi libri li ha scritti su rotoli di carta. Come insegnante, invece, aveva scritto nell’animo degli uomini, e questa è la cosa più importante.


Tratto da:
Inutile chiedere una scuola più nuova se poi ci dimentichiamo i vecchi valori, di Giovanni Reale
su
Il Giornale, 13 Novembre 2008

23 ottobre 2008

Cittadini non si nasce, si diventa

Cari lettori,
come si diventa cittadini? Lo si è dalla nascita, lo si diventa automaticamente quando si fa la carta d'identità, lo si impara? Chi ce lo insegna? Cittadini non si nasce, si diventa: questo è il titolo di un articolo sul sito del giornale 'La Stampa' scritto da Michael Walzer, filosofo della politica americano, in cui lui parla dei tre principali requisiti da inserire nel curriculum di tutte le scuole in ogni paese affinché gli studenti possano diventare buoni cittadini in un stato democratico.


Michael Walzer, filosofo della politica americano, inaugura oggi a Asti il Master in Civic Education con la Lezione magistrale «Sull’educazione del cittadino» di cui pubblichiamo un’ampia sintesi. Frutto della collaborazione tra il James Madison Program dell’Università di Princeton e Ethica, il Master è diretto da Maurizio Viroli. Ha lo scopo di diffondere la coscienza civica, la cui nozione, in Italia e in Europa, sembra agli organizzatori assai critica. Il Master intende anche promuovere la conoscenza dei valori e della cultura americani.

Immaginate un paese moderno, come il mio e come il vostro, che sia diviso in materia culturale, religiosa, ideologica ed economica. Che tipo di educazione civica dovrebbero fornire le scuole statali e le università di questo paese? Voglio concentrarmi qui solo su questioni concernenti l’educazione politica. Che cosa devono sapere gli studenti che voteranno alle «nostre» elezioni, dove il riferimento del pronome è semplicemente l’insieme dei cittadini adulti?

Ci sono, credo, tre requisiti curriculari di importanza critica, che valgono tanto per le scuole pubbliche quanto per quelle religiose.

Il primo requisito probabilmente può essere meglio soddisfatto al livello delle scuole superiori, perché implica qualcosa di simile a quanto si usava chiamare «educazione civica». Gli studenti hanno bisogno di imparare una scienza politica pratica della democrazia; hanno bisogno di un corso dove si studino il funzionamento quotidiano dei ministeri di governo, delle assemblee rappresentative, delle corti, dei partiti, dei movimenti sociali e così via. Questa è la parte meno controversa dell’educazione democratica. Ciò nonostante, v’è un importante lavoro educativo da fare qui: insegnare agli studenti a pensare se stessi come futuri partecipanti nell’attività politica, non meramente come spettatori bene informati. E siccome lo spettacolo è spesso tutt’altro che edificante e invitante, gli insegnanti devono evidenziare come il sistema democratico non sia mai chiuso, il suo carattere non sia mai deciso una volta per tutte. Nonostante tutte le rigidezze burocratiche, ci sono sempre delle opportunità per persone con idee nuove o diverse. Gli studenti dovrebbero essere incoraggiati a sperimentare le dottrine politiche, e si dovrebbe insegnare loro come discuterle davanti ai loro pari e all’interno di specifici ambiti istituzionali.

Secondo, gli studenti hanno bisogno di studiare la storia delle istituzioni e delle pratiche democratiche dall’antica Grecia in avanti, e parallelamente devono imparare e misurarsi con la preferenza di vari gruppi religiosi per forme di governo non democratiche. Forse insegnanti in scuole con molti studenti cattolici, ebrei o musulmani cercheranno modi per naturalizzare la democrazia all’interno di tradizioni che sono state nei fatti ostili ad essa, ma io sarei per favorire un confronto onesto con le forme di governo - di re o preti o saggi religiosi - preferite dalla religione. Dopo tutto, la democrazia è una cultura della critica e del dissenso. Ci sono vari modi per aiutare gli studenti a sentirsi a casa propria in una società democratica, e la pretesa che tutti ci abbiamo da sempre vissuto non è necessariamente la migliore. Certamente non è il modo più onesto, e i giovani generalmente riconoscono e rifuggono la disonestà. Ciò detto, non penso che sia sbagliato raccontare la storia cattolica, ebrea o musulmana in una versione che metta in rilievo i possibili punti di accesso ad un’intesa democratica. Ma si deve anche raccontare la storia greca e soffermarsi sui momenti genuinamente formativi nella storia della democrazia.

Il terzo requisito è a mio parere il più importante: un corso sulla filosofia o la teoria politica della forma di governo democratica, dove si rivedano criticamente tutti gli argomenti standard. Ciò ovviamente dovrebbe includere discussioni sugli ordinamenti costituzionali, ma il fulcro dovrebbe essere sulle pratiche e le attitudini che costituiscono una cultura politica democratica: l’eguaglianza dei cittadini (così degli uomini come delle donne), la loro libertà di parola e associazione, il diritto all’opposizione, la tolleranza per il dissenso, l’esigenza (alle volte) di compromessi, uno scetticismo rispetto all’autorità e così di seguito. Queste, naturalmente, sono le pratiche e le attitudini in una democrazia liberale, ma in questo caso l’aggettivo non qualifica bensì semplicemente rinforza il sostantivo; dubito che una democrazia illiberale possa mantenere a lungo l’eguaglianza, l’inclusione, e il diritto all’opposizione che sono caratteristiche necessarie della politica democratica. Il modo migliore di insegnare queste pratiche e attitudini è esemplificarle in classe: così, i testi teorici nei quali la democrazia è stata spiegata e difesa (o criticata) dovrebbero essere studiati democraticamente, con una discussione libera, una ricerca aperta a qualsiasi interpretazione, un’idea del carattere sempre incompiuto del progetto democratico. Gli argomenti non dovrebbero mai essere ridotti ad un catechismo, in special modo non ai fini dell’esame finale.

Sebbene le nostre scuole e università pubbliche non possano insegnare teologia cristiana (tranne che, diciamo, in un corso sulla filosofia della religione), esse possono insegnare teoria democratica liberale. Costituzionalmente si tratta di un’attività permessa. Ma a me sembra un’attività politicamente e moralmente necessaria, perché gli studenti stanno per diventare cittadini attivi, e presto prenderanno decisioni di importanza capitale che determineranno la qualità, e forse anche la sicurezza fisica, della nostra vita comune. L’educazione di ciascun giovane incide su ogni altro giovane. Stante il processo decisionale democratico, i figli di genitori religiosi, i figli di politici settari, contribuiranno a decidere il destino dei miei figli e dei vostri. Non ci sono esenzioni possibili, a meno che una comunità religiosa non opti per sottrarsi del tutto dalla condizione di cittadinanza e adotti lo status di stranieri residenti. Forse dovremmo permetterlo, ma non vedo ragione per permettere a futuri cittadini di evitare o sfuggire un’educazione alla cittadinanza. La posta in gioco è troppo alta.

Pensate alla cittadinanza come a un incarico politico: senza dubbio, i futuri incaricati dovrebbero imparare qualcosa sulle responsabilità che l’incarico comporta. O meglio, coloro che occupano l’incarico adesso dovrebbero insegnare alla generazione successiva ciò che credono di aver imparato a proposito di quelle responsabilità. Questo perché la riproduzione di una politica democratica non è mai cosa certa. Dobbiamo dimostrare ai nostri ragazzi che veramente crediamo nei valori che rendono possibile la democrazia. Ciò significa innanzitutto che dobbiamo vivere alla luce di quei valori; significa altresì che non dovremmo avere paura di insistere sul loro studio. Per ragioni molto sensate, la cittadinanza, diversamente dalla professione medica o legale, non richiede una licenza; gli studenti non necessitano di una promozione in politica democratica. Ma certamente dovrebbero seguire il corso.


Tratto da:
Cittadini non si nasce, si diventa di Michael Walzer
su
La Stampa, 23 Ottobre 2008

20 ottobre 2008

Il Ritorno del Pricipe

Un libro fondamentale, che consiglio vivamente di leggere a tutti coloro che vogliono capire il meccanismo “osceno” e criminale del potere.

Riporto alcuni passi tratti dal libro nella speranza di indurre i più a leggerlo interamente e cercando, al contempo, di dare un’idea, a chi non ama la lettura, della realtà del potere.


Disinformazione

“Tutti noi siamo ciechi dinnanzi ad uno dei fenomeni più importanti delle nostre vite: il reale funzionamento della macchina del potere…si tratta di una cecità indotta dallo stesso potere al fine di perpetuarsi”.

“Questa disinformazione si realizza azionando due leve: quella della censura informativa su tutti i fatti che riguardano i rapporti mafia-potere…..e quella dell’amplificazione a senso unico delle vicende criminali di bassa macelleria tipiche della struttura militare”.

“Il lavoro di imposture culturali funzionali al potere è affidato da sempre proprio agli intellettuali e costituisce una delle loro principali fonti di reddito”.


“La classe dirigente “dirige” anche la formazione della pubblica opinione, organizza il sapere sociale, seleziona la memoria collettiva, sceglie ciò che deve essere ricordato e ciò che deve essere dimenticato, costruisce la tavola dei valori, imponendo dall’alto esempi in negativo e positivo”


Oligarchia

“Nel mondo della politica il potere, come abbiamo accennato, è concentrato nelle mani di pochi oligarchi i quali, oltre a nominare i parlamentari, attribuiscono posti di comando in tutti gli snodi della istituzioni secondo criteri di fedeltà. Obbedire senza fiatare garantisce la permanenza nel giro di quelli che contano, e brillanti carriere. La disobbedienza e la critica ti tagliano fuori. L’etica dell’obbedienza celebra i suoi fasti anche nel mondo della comunicazione….l’obbedienza ai superiori gerarchici può rendere la vita agevole per i sostituti procuratori, il dissenso può esporre invece a sfibranti mobbing….ispezioni ministeriali a raffica, richieste di trasferimenti urgenti per incompatibilità ambientale, avocazioni di procedimenti, provvedimenti disciplinari che entrano anche nella valutazione di merito di decisioni sgradite”.


“Vi sono mille modi per distruggere la vita di una persona, riducendola alla miseria, gettandola nel discredito, condannandola alla morte civile”.


“Il metodo mafioso che nella sostanza consiste nell’abuso organizzato dei pochi sui molti e che si declina nelle più svariate forme, non è infatti una creatura delle classi popolari, ma delle classi alte”.



La corruzione e il ricatto

“La corruzione in Italia non sembra essere una deviazione del potere, ma una forma “naturale” di esercizio del potere che gode di accettazione culturale da parte della classe dirigente e che conta sulla rassegnazione da parte delle classi sottostanti”.

“La società della corruzione infatti genera la società del ricatto”.

“Il metodo consiste nell’integrare nel proprio interno quanti più soggetti possibili, rendendoli complici e quindi ricattabili. In questo modo non esistono variabili indipendenti che possono scombinare i giochi. Il sistema integra al suo interno le opposizioni disinnescando il controllo politico, integra magistrati disinnescando il controllo penale, integra, corrompendoli, esponenti delle stesse forze di polizia, integra, comprandoli, giornalisti che possono rivelarsi scomodi”.

La criminalità dei potenti

“Sempre più spesso mi accadeva di rendermi conto che il mondo degli assassini comunica attraverso mille porte girevoli con insospettabili salotti e con talune stanze ovattate del potere…i peggiori tra loro avevano frequentato le nostre stesse scuole, potevi incontrarli nei migliori ambienti e talora potevi vederli in chiesa battendosi il petto accanto a quelli che avevano già condannato a morte”.

“…I Riina, i Provengano, i Concutelli, i Fioravanti, i Chiesa, i Poggiolini non sono – come si vorrebbe far credere - dei mostri, ma sono espressione di una mostruosa “normalità” italiana che chiama in causa l’identità culturale del Principe, cioè di quella componente della classe dirigente italiana che da sempre ha costruito il proprio potere sul sistema della corruzione, su quello mafioso, e che ha protetto nel tempo i vari specialisti della violenza utilizzandoli per gli omicidi di mafia e per la strategia della tensione realizzata mediante stragi di innocenti”.

“Questa criminalità dei potenti si è declinata dall’Unità di Italia ad oggi su tre versanti: la corruzione sistemica, la mafia e lo stragismo per fini politici”.

“La questione criminale, dunque, in Italia è inscindibile da quelle dello stato e della democrazia”

La mafia

“…la mafia è anche uno dei tanti complicati ingranaggi che nel loro insieme costituiscono la macchina del potere reale nazionale…nessuno può permettersi di svelare taluni segreti della parte oscena della storia che gli è accaduto di intravedere senza rischiare di restare stritolato dalla reazione compatta e trasversale di tutto il sistema”.

“Neanche Falcone poteva articolare compiutamente il proprio pensiero, illuminando una realtà di potere criminale intrecciato con quello legale così complessa da sembrare ai più incredibile e frutto di allucinazione. Esplicitare compiutamente il suo pensiero l’avrebbe delegittimato ed esposto alla reazione violentissima di tutto il sistema….immaginiamo cosa avrebbe significato, allora, dopo un attentato di quel genere, affermare esplicitamente che la mafia opera talora come braccio esecutivo di un sistema criminale nazionale di cui fanno parte soggetti apicali di altri sistemi di potere. Ti avrebbero preso per pazzo”.

“….è l’intero sistema che chiede il silenzio: e lo chiede perché certi segreti, certe verità non sono gestibili pubblicamente né sul piano giudiziario, né su quello politico. La stessa coltre di silenzio giudiziario e politico calata sui tentativi di golpe e sui crimini commessi dal Principe negli anni della strategia della tensione avvolge anche i crimini mafiosi. Il silenzio coatto sui crimini è il sigillo del potere”

“Personaggi come Provenzano e Riina e altri capi sono il sottoprodotto e la replica popolare di questo modo di esercitare il potere. Durano nel tempo non per forza propria, ma perché sono leve necessarie del gioco grande del potere. Quando esauriscono la loro funzione vengono abbandonati al loro destino. Anche dopo tuttavia continuano a svolgere un ruolo essenziale:fungere da parafulmine su cui scaricare tutte le responsabilità del male e da paravento della criminalità del potere”.


Massoneria

“Nel tempo alcuni vertici militari della mafia sono stati cooptati nel circuito massonico. E’ il caso ed esempio di Stefano Boutade, capo del mandamento mafioso di Santa Maria del Gesù, referente di Andreotti, di Sindona e di altri potenti. Negli anni settanta Bontade conseguì il grado 33 della massoneria”.

“La massoneria occulta e deviata è stata probabilmente una delle postazioni dalle quali alcuni vertici strategici del principe hanno utilizzato di volta in volta come bracci armati per i propri disegni di potere la mafia siciliana, la ‘ndrangheta, la camorra, la banda della Magliana, i servizi deviati. Da ultimo, secondo quanto dichiarato da vari testimoni di giustizia, alcuni suoi esponenti avrebbero svolto un ruolo di direzione nel progetto di eversione democratica che nel 1992-1993 si proponeva, mediante l’esecuzione di stragi affidate alla mafia, di mettere in ginocchio lo Stato e di instaurare un nuovo ordine politico fondato sulla disarticolazione dell’unità nazionale e la creazione di tre ministati”.


“Gioacchino Pennino, uomo d’onore, medico e politico di rango, divenuto collaboratore ha dichiarato a sua volta che l’ordine di uccidere Dalla Chiesa era stato trasmesso da Roma tramite un uomo della P2 ora deceduto. Solo pochi vertici della mafia conoscevano la verità”.


“In sostanza si assiste nel tempo ad un processo quasi fisiologico di integrazione tra massoneria segreta e deviata ed alcuni esponenti apicali delle mafie, i quali all’interno delle loro rispettive organizzazioni di riferimento costituiscono strutture tenute segrete agli altri affiliati, destinate a svolgere un ruolo di collegamento tra élite criminali dei ceti alti e élite criminali dei ceti bassi per la conduzione comune degli affari di più alto livello e per i grandi giochi di potere. La massa di manovra delinquenziale sul territorio, tenuta all’oscuro degli uni e degli altri, viene utilizzata di volta in volta per le singole operazioni. Se qualcosa va per il verso storto, tali “operatori” vengono sacrificati. La loro eventuale collaborazione con la magistratura non determina problemi gravi perché essi ignorano sia le reali motivazioni sia i registi occulti delle operazioni di cui sono stati meri esecutori. Se parlano raccontano le motivazioni di copertura a essi fornite e da essi ritenute in buona fede corrispondenti al vero. Un meccanismo molto sofisticato e collaudato nel tempo”.

Stragi del 1992 -1993

“Secondo le risultanze acquisite, la regia di tale strategia, che doveva attuarsi mediate una escalation di stragi e di sapienti mosse politiche, era stata messa a punto dall’ala più oltranzista del Principe: settori della massoneria deviata, esponenti della destra eversiva, segmenti dei servizi, circoli imprenditoriali e finanziari. In tale progetto alla mafia era riservato il ruolo di braccio operativo”.

“Quel che mi pare interessante osservare è che, come è emerso nel corso delle indagini, il piano “segreto” era conosciuto, almeno nelle sue linee essenziali, da alcuni esponenti del mondo politico del tempo, i quali comunicavano tra loro da sponde opposte anche lanciandosi reciproci messaggi ed avvertimenti criptati,indecifrabili a tutti coloro che erano ignari di quanto stava accadendo”.

“La decisione di ucciderlo (Paolo Borsellino n.d.r.) subisce un’improvvisa accelerazione e viene portata a termine il 19 luglio cogliendo di sorpresa alcuni degli stessi vertici di Cosa nostra, come Giovanni Brusca”.

“Solo un nucleo ristrettissimo ed eletto di capi, quelli legati alla massoneria deviata ed il Principe, sanno il perché di quella accelerazione”


Tratto da:
Il Ritorno del Principe di Paolo Franceschetti
su
Il blog di Paolo Franceschetti, 22 Luglio 2008

16 ottobre 2008

Gomorra

Cari lettori,
ultimamente la stampa italiana ed europea ha pubblicato diversi articoli su Roberto Saviano, autore del libro "Gomorra". Lo scorso Settembre è anche uscito il film. Quella che segue è una serie di interessanti recensioni dall'Inghilterra sul film in questione.

Un sequel sembra piuttosto improbabile, dato che diversi membri del cast potrebbero facilmente già finire dietro le sbarre, ma il regista Matteo Garrone può trarre conforto da una serie di eccellenti recensioni per il suo oscuro e sinistro racconto della malavita napoletana. Basato sul libro di Roberto Saviano, questa è la storia della brutale organizzazione della camorra, che regna su gran parte dell'area metropolitana di Napoli e la regione circostante.

La critica loda Garrone per la sua fosca rappresentazione della vita dei singoli individui sui vari gradini della scala della camorra, dallo "sleazy mobster" (sporco mafioso) don Ciro, che consegna denaro contante alle famiglie di criminali in prigione, ai
giovani "tearaways" (delinquenti) Marco e Ciro, che non si fermano di fronte a nulla per rimpiazzare i loro capi anziani. La maggior parte dei critici nota l'orientamento neo-realista del film con il singolare paragone con la "Città di Dio", film del regista brasiliano Fernando Meirelles sulla vita nei ghetti di Rio de Janeiro.

"Anche se sarà uno spettacolare fallimento per quelli in attesa di un film nello stile di 'Goodfellas' sullo stile di vita
teppista napoletana, il film ha una qualità nascosta che lo rende un dramma eccezionale", scrive Damon Wise per l'Empire. "[Questo è] un cupo, lento, ma ben calibrato studio della criminalità organizzata nelle aree urbane di Napoli che lascia un aspro sapore in bocca".

"Napoli è raffigurata come una fogna popolata da dannati, e una passerella di progetti di edilizia abitativa, simile a piramidi in rovina, sono all'epicentro di gran parte della trama, con uomini che si schiantano a capofitto contro una morte presentata con fredda banalità", scrive Nick Schager per il blog 'Lessons in Darkness'. " La rozza cinematografia di Garrone è radicata nella tradizione neo-realista italiana, mentre la sua storia ricorda un po' le rassegne più grandi di Robert Altman, una sintesi stilistica che, nelle mani sicure del regista, dà molto peso, vigore e visibilità al fosco ritratto di un mondo moderno che è in rapida caduta verso la rovina".

"Matteo Garrone ha creato un genere snervante del cinema neo-neorealista italiano dal libro bestseller 'Gomorra' di Roberto Saviano sul potere e sul campo d'azione della mafia napoletana: la camorra", scrive il nostro Peter Bradshaw. "Il tetro gioco di parole del titolo è quasi impercettibile, coperto dall'enorme esplosione del film. Dopo i titoli di coda, è difficile sfuggire alla paura, persino alla disperazione, che l'intera regione di Napoli e dell'Italia del Sud è adatta solo per una pioggia di fuoco dal cielo, o forse per un millennio in quarantena, come una Cernobyl etica o addirittura letterale".

Non tutti hanno belle parole per il film di Garrone, tuttavia. Cosmo Landesman del Sunday Times prende la mira sull'incapacità nichilista del film ad attrarre il suo pubblico.

"Garrone vuole ritrarre una società in cui la criminalità non è un'aberrazione, ma la norma", egli scrive. "Questo è bene, ma, alla fine, è difficile sapere che cosa il pubblico dovrebbe provare, poiché il film sembra sostenere la tesi piuttosto evidente che la camorra è un branco di bruti che fanno male per la società: ma guarda un po', chi l'avrebbe mai detto! Noi non siamo lasciati con un senso di indignazione o rabbia nei loro confronti, quindi alla fine ci ritroviamo solo con un altro film sulla mafia che cerca - e non ci riesce - di intrattenerci".


Tratto da:
You Review: Gomorrah
su Guardian.co.uk, 13 ottobre 2008

11 ottobre 2008

Sciopero dei musicisti in Germania

Musicisti in tutta la Germania hanno smesso di suonare i loro strumenti per protestare contro ciò che essi considerano una bassa retribuzione. Anche l'associazione dei coristi e ballerini d'opera ha aderito alla protesta.

Sale da concerto e teatri d'opera in tutta la Germania potrebbero cadere in silenzio perché migliaia dei migliori musicisti del paese sono andati in sciopero al fine di ottenere un aumento di retribuzione. Finora più di 4000 musicisti hanno aderito alla protesta.

Secondo l'agenzia di stampa Reuters, la protesta si sta diffondendo. Inoltre, mercoledì 8 ottobre l'associazione delle orchestre tedesche (DOV) ha detto che più di 70 orchestre potrebbero essere costrette ad annullare prove e concerti.

Il presidente della DOV Gerald Mathers ha dichiarato che i membri della sua organizzazione sono contrariati dalla decisione da parte dei teatri federali e locali di dare un sostanziale aumento di retribuzione all'inizio dell'anno.

"I 13.600 membri della DOV sono gli unici che non l'hanno ricevuto. Non possiamo permettere che questo passi inosservato", ha aggiunto.

I musicisti hanno contratti con il Deutscher Bühnenverein, un gruppo di datori di lavoro che rappresenta circa 430 opere, teatri e sale da concerto in tutto il paese.


Tratto da:
German Musicians Strike for Higher Pay
su Deutsche Welle, 09 ottobre 2008

3 ottobre 2008

Minoranze etniche in TV: il caso "Tatort"

Köln, Ottobre 2008 - Dopo il caso italiano, ecco che si ritorna a parlare di Sinti e Rom, questa volta in Germania. Il consiglio nazionale tedesco dei Sinti e Rom ha aspramente criticato la decisione della WDR (Westdeutsche Rundfunk - canale televisivo statale della Germania dell'Ovest) di mettere in onda una puntata della fiction "Tatort" chiamata "Brandmal".

Secondo quanto scrive l'amministratore delegato del "Zentralrat deutscher Sinti und Roma" in una lettera alla direttrice della WDR, la puntata di Tatort in questione è piena di pregiudizi e stereotipi sui Rom, come ad esempio criminalità, crudeltà, sporcizia, abbandono, sfruttamento dello stato assistenziale.

Il Zentralrat aveva già protestato una volta nel Novembre 2007 sulla base della sceneggiatura della puntata in questione, in cui si tratta di esuli dalla guerra civile dei Rom che costringono i loro figli a rubare. Secondo l'opinione di Romani Rose, amministratore delegato del consiglio nazionale tedesco dei Sinti e Rom, nell'episodio trovano conferma i pregiudizi contro le minoranze etniche i quali, dopo l'olocausto e la propaganda nazista, trovano ancora sempre un forte riscontro nella nostra società.

Verena Kulenkampff, direttrice della WDR, ha innanzitutto espresso il suo rispetto per le giuste preoccupazioni del Zentralrat sui pregiudizi contro le minoranze dei Sinti e Rom. Tuttavia, la WDR non vede nessuna ragione per non mandare in onda la puntata. Al contrario, secondo la WDR, grazie alla cauta ed attenta sceneggiatura si vuole mostrare qualcosa di completamente diverso. L'episodio non solo non conferma i stereotipi tradizionali ma vuole smontarli, seguendo una tradizione critico-sociale della serie televisiva „Tatort“ di Köln. Per di più, questo episodio si basa su un'idea del rappresentante dell'associazione culturale dei Rom austriaci, Rudolf Sarközi.

Ci sono però due precedenti: dopo che un incendio a Ludwigshafen aveva causato la morte di nove persone di nazionalità turca, lo scorso Febbraio la SWR (Südwestrundfunk) ha dovuto posticipare un episodio di „Tatort“ al 6 Aprile. Poi nel Settembre del 2007 un episodio mandato in onda dalla NDR (Norddeutscher Rundfunk) ha scatenato grandi proteste della comunità islamica degli Aleviti. In più di 15.000 hanno manifestato a Köln contro la puntata in cui si trattava di un caso d'incesto in una famiglia alevitica.


Tratto da:
“Tatort“ - Sinti und Roma fordern Absetzung
su Focus, Germania, ottobre 2008
“Tatort“ - Trotz Roma-Protest: WDR will „Tatort“-Folge zeigen
su FAZ, Germania, ottobre 2008

11 luglio 2008

Opera da tre soldi

L’opera dei mendicanti di John Gay (1728), uno dei più clamorosi successi del teatro inglese di ogni tempo, deve la sua salda struttura al fatto di essere una parodia, vedi il titolo, della magniloquente opera lirica di allora, palestra di magnanimità e di gesti sublimi, con situazioni canoniche come lo scontro tra due donne rivali (soprano e contralto) e giustizia poetica al finale (un dio che aggiusta le cose all’ultimo momento).

Al posto degli eroi l’amico di Swift mostrò dei malavitosi il cui codice d’onore è di segno contrario - sposarsi è una iattura perché impedisce di esercitare la prostituzione; tutti tradiscono tutti; nessuno è più corrotto di chi amministra la giustizia - e al posto delle grandi arie mise motivi molto popolari, con parole nuove che ne stravolgevano il senso. Nel suo rifacimento (1927), Bertolt Brecht lasciò perdere la polemica contro il classicismo musicale, ma così il lavoro rinunciò alla compattezza. Restò, ovviamente, il sarcasmo sulle ipocrisie sociali (delinquenti organizzati, a modo loro, proprio come la borghesia), sullo sfruttamento della miseria e sul falso moralismo. Ma la sequenza di scene al servizio di una trama abbastanza sgangherata (il gangster Macheath sposa la figlia di un re dei bassifondi che lo fa arrestare e condannare alla forca; ripetutamente denunciato dai suoi amici, alla fine è salvato grazie a un incongruo intervento reale) è tenuta insieme quasi solo da due elementi: il nitore incomparabile del dettato (come molti che lo conoscono solo in traduzione possono ignorare, Brecht è uno stilista supremo), e le meravigliose musiche di Kurt Weill, che ancora oggi comunicano irresistibilmente tutta la rabbia, l’impotenza, l’energia repressa e la cinica disperazione della Germania in ginocchio dopo la Grande Guerra.

Un testo così, sublime e sconnesso, ha sempre attirato i registi e dato loro filo da torcere, specie quando adottano uno stile naturalista per situazioni che sono invece grottescamente paradossali: trabocchetto nel quale non poteva cadere l’intellettualissimo Bob Wilson, che della vicenda dà una lettura estremamente stilizzata senza però trascurare, anzi valorizzandone al massimo, la componente musicale. Scena dunque astratta, motivi di sbarre fluorescenti che contro uno sfondo nero o di un unico non-colore compongono disegni geometrici, evocanti inferriate e recinti ma anche interni di altro tipo; e rigido bianco e nero anche per tutti gli interpreti, con facce coperte di biacca, occhi bistrati e boccucce scarlatte come attori del cinema muto - in nappa i malavitosi, in velluto luccicante il dandy Macheath, con le classiche calze nere e giarrettiere le mignotte; Peachum è un vecchio con papalina quasi ebraica, saggiamente ammiccante come un incrocio tra Alec Guinness e l’ispettore Derrick.

Effetti impeccabili, luci anche da dietro che proiettano sagome, sonorità come schiocchi di frusta, cigolii di porte ferrate, a sottolineare gesti; e stupendissimo cast del Berliner Ensemble, venti formidabili attori-cantanti tra cui Stefan Kurt è un Macheath giovane, biondissimo e quasi femmineo, Christina Drechsler una Polly piccola e elettrica (a lei è consegnata anche una versione spiritata della canzone di Jenny dei pirati), Axel Werner un cadaverico Tiger Brown, il capo della polizia... ma andrebbero ricordati tutti quanti. Tre ore, esito trionfale e meditazione per i nostri politici (assenti a Spoleto), che stanno decidendo di tagliare i fondi al teatro pubblico. Festival di Spoleto


Tratto da:
Altro che tre soldi, è un Brecht sublime
su La Stampa, Italia, 7 Luglio 2008