11 luglio 2008

Opera da tre soldi

L’opera dei mendicanti di John Gay (1728), uno dei più clamorosi successi del teatro inglese di ogni tempo, deve la sua salda struttura al fatto di essere una parodia, vedi il titolo, della magniloquente opera lirica di allora, palestra di magnanimità e di gesti sublimi, con situazioni canoniche come lo scontro tra due donne rivali (soprano e contralto) e giustizia poetica al finale (un dio che aggiusta le cose all’ultimo momento).

Al posto degli eroi l’amico di Swift mostrò dei malavitosi il cui codice d’onore è di segno contrario - sposarsi è una iattura perché impedisce di esercitare la prostituzione; tutti tradiscono tutti; nessuno è più corrotto di chi amministra la giustizia - e al posto delle grandi arie mise motivi molto popolari, con parole nuove che ne stravolgevano il senso. Nel suo rifacimento (1927), Bertolt Brecht lasciò perdere la polemica contro il classicismo musicale, ma così il lavoro rinunciò alla compattezza. Restò, ovviamente, il sarcasmo sulle ipocrisie sociali (delinquenti organizzati, a modo loro, proprio come la borghesia), sullo sfruttamento della miseria e sul falso moralismo. Ma la sequenza di scene al servizio di una trama abbastanza sgangherata (il gangster Macheath sposa la figlia di un re dei bassifondi che lo fa arrestare e condannare alla forca; ripetutamente denunciato dai suoi amici, alla fine è salvato grazie a un incongruo intervento reale) è tenuta insieme quasi solo da due elementi: il nitore incomparabile del dettato (come molti che lo conoscono solo in traduzione possono ignorare, Brecht è uno stilista supremo), e le meravigliose musiche di Kurt Weill, che ancora oggi comunicano irresistibilmente tutta la rabbia, l’impotenza, l’energia repressa e la cinica disperazione della Germania in ginocchio dopo la Grande Guerra.

Un testo così, sublime e sconnesso, ha sempre attirato i registi e dato loro filo da torcere, specie quando adottano uno stile naturalista per situazioni che sono invece grottescamente paradossali: trabocchetto nel quale non poteva cadere l’intellettualissimo Bob Wilson, che della vicenda dà una lettura estremamente stilizzata senza però trascurare, anzi valorizzandone al massimo, la componente musicale. Scena dunque astratta, motivi di sbarre fluorescenti che contro uno sfondo nero o di un unico non-colore compongono disegni geometrici, evocanti inferriate e recinti ma anche interni di altro tipo; e rigido bianco e nero anche per tutti gli interpreti, con facce coperte di biacca, occhi bistrati e boccucce scarlatte come attori del cinema muto - in nappa i malavitosi, in velluto luccicante il dandy Macheath, con le classiche calze nere e giarrettiere le mignotte; Peachum è un vecchio con papalina quasi ebraica, saggiamente ammiccante come un incrocio tra Alec Guinness e l’ispettore Derrick.

Effetti impeccabili, luci anche da dietro che proiettano sagome, sonorità come schiocchi di frusta, cigolii di porte ferrate, a sottolineare gesti; e stupendissimo cast del Berliner Ensemble, venti formidabili attori-cantanti tra cui Stefan Kurt è un Macheath giovane, biondissimo e quasi femmineo, Christina Drechsler una Polly piccola e elettrica (a lei è consegnata anche una versione spiritata della canzone di Jenny dei pirati), Axel Werner un cadaverico Tiger Brown, il capo della polizia... ma andrebbero ricordati tutti quanti. Tre ore, esito trionfale e meditazione per i nostri politici (assenti a Spoleto), che stanno decidendo di tagliare i fondi al teatro pubblico. Festival di Spoleto


Tratto da:
Altro che tre soldi, è un Brecht sublime
su La Stampa, Italia, 7 Luglio 2008

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